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Decisione n. 6194 dell’ 8 ottobre 2009 Consiglio di Stato, sez. VI

Diniego del permesso di soggiorno: la presunzione di pericolosità sociale in relazione alla commissione di determinati reati penali può essere contemperata dalla sopravvenienza di talune circostanze 

Decisione n. 6194 dell’ 8 ottobre 2009 Consiglio di Stato, sez. VI

Sul ricorso in appello n. 1227/09, proposto da Z. A., rappresentato e difeso dall’Avv. XXXX  XXXX;

contro

il MINISTERO DELL’INTERNO e la QUESTURA DI VERONA, rappresentati e difesi dall’Avvocatura Generale dello Stato, con domicilio in Roma via dei Portoghesi n. 12;

per l'annullamento

della sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale per il Veneto n. 4102/07 del 27.12.2007; 
Visto il ricorso con i relativi allegati; 
Visto l'atto di costituzione in giudizio delle Amministrazioni intimate; 
Viste le memorie prodotte dalle parti a sostegno delle rispettive difese; 
Visti gli atti tutti della causa; 
Relatore, alla pubblica udienza del 16 giugno 2009, il Consigliere Gabriella De Michele; 
Uditi l’avv. Albanese e l’avv. dello Stato Vitale; 
Ritenuto e considerato in fatto e in diritto quanto segue:

FATTO

Con atto di appello notificato il 19.1.2009 si impugna la sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale per Veneto n. 4102/07 del 27.12.2007 (che non risulta notificata), con la quale veniva respinto il ricorso del sig. A. Z., di nazionalità marocchina, avverso il diniego di rinnovo del proprio permesso di soggiorno, diniego emesso con decreto del Questore di Verona in data 22.3.2007 e giustificato – ex art. 4, comma 3 e 5, comma 5 del D.Lgs. n. 296/1998 – da una sentenza di condanna per rapina, implicante il diniego in questione quale atto dovuto.

Avverso detta sentenza – emessa in forma semplificata ex art. 26, quarto comma, della legge 6.12.1971, n. 1034, nel testo introdotto dall’art. 9 della legge 21.7.2000, n. 205 – nell’atto di appello vengono ribadite argomentazioni, riferite alla non rilevante gravità del fatto contestato (furto di una telecamera del valore di 339 Euro, rubricata come rapina a seguito di “spintoni per assicurarsi l’impunità”, senza che venisse causata alcuna lesione), nonché all’intervenuta sospensione condizionale della pena ed alla maturazione – nell’aprile del 2007 – dei presupposti per la riabilitazione, con istanza già presentata al Tribunale di Sorveglianza di Venezia. Quanto ad una denuncia per furto, di cui si fa cenno nel provvedimento impugnato, il procedimento è stato archiviato, con conseguente irrilevanza della questione. In tale situazione, non avrebbero potuto non essere considerata l’assenza di qualsiasi pericolosità sociale dello straniero interessato e la regolare posizione lavorativa, presente e pregressa, del medesimo. In una memoria conclusiva, infine, si rappresenta il possesso, in capo all’appellante, dei requisiti per acquisire la qualifica di soggiornante di lungo periodo sul territorio nazionale, con conseguente applicabilità delle forme di tutela, previste dalla direttiva 2003/109/CE. 
L’Amministrazione interessata non si è costituita in giudizio in sede di appello.

DIRITTO

La questione sottoposta all’esame del Collegio è quella della avvenuta emanazione, o meno, dell’atto impugnato in primo grado in conformità alla disciplina vigente, con riferimento all’art. 5, comma 5 del D.Lgs. 25.7.1998, n. 286 (Testo Unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione), in base al quale “il permesso di soggiorno o il suo rinnovo sono rifiutati e, se il permesso di soggiorno è stato rilasciato, esso è revocato, quando mancano o vengono a mancare i requisiti richiesti per l’ingresso e il soggiorno nel territorio dello Stato…sempre che non siano sopraggiunti nuovi elementi che ne consentano il rilascio e che non si tratti di irregolarità amministrative sanabili”. 
Tra le circostanze che precludono il rilascio del permesso di soggiorno (e quindi, in base alla norma sopra riportata, anche il rinnovo del medesimo) l’art. 4, comma 3 del medesimo D.Lgs. – nel testo introdotto dall’art. 4, comma 1, della legge 30.7.2002, n. 189 – pone espressamente il caso in cui lo straniero “risulti condannato, anche a seguito di applicazione della pena su richiesta, ai sensi dell’art. 444 del codice di procedura penale, per reati previsti dall’art. 380, commi 1 e 2 del codice di procedura penale, ovvero per reati inerenti gli stupefacenti, la libertà sessuale, il favoreggiamento dell’immigrazione clandestina verso l’Italia e dall’emigrazione clandestina dall’Italia verso altri Stati, o per reati diretti al reclutamento di persone da destinare alla prostituzione o allo sfruttamento della prostituzione o di minori da impiegare in attività illecite”. 
Nella situazione in esame non è contestato che la condanna riportata dall’appellante configuri una delle ipotesi ostative al rilascio o al rinnovo del permesso di soggiorno, a norma del citato art. 380 c.p.p. (con particolare riguardo – per quanto qui interessa – al delitto di rapina, ex art. 380 cit., comma 2 lettera f c.p.p.); vengono però sottolineate circostanze, che avrebbero dovuto indurre l’Amministrazione ad un giudizio di non sussistente pericolosità sociale dello straniero di cui trattasi e di possibilità per il medesimo di protrarre il proprio soggiorno sul territorio nazionale. 
Alcune delle predette circostanze tuttavia (sussistenza dei presupposti sia per la riabilitazione – con istanza presentata, comunque, in data successiva al diniego – sia per il riconoscimento delle prerogative, corrispondenti al lungo soggiorno in Italia) risultano prospettate per la prima volta in appello. A tale riguardo non può non essere ricordato, pertanto, come non sia consentito al Collegio accedere ad alcun ampliamento della domanda, risultando quest’ultima inammissibile – nella misura in cui postuli la valutazione di nuovi profili di illegittimità del provvedimento impugnato – per il noto divieto di “ius novorum” in appello (quale principio sancito dall’art. 345, comma 2, c.p.c., nella formulazione modificata con L. 26.11.1990, n. 35, che vieta la proposizione in appello di nuove eccezioni, che non siano rilevabili anche d’ufficio”: cfr. in tal senso Cons. St., sez. V, 2.10.2006, n. 5724; Cons. St., sez. VI, 29.7.2005, n. 4115, 27.7.4176 e 22.4.2008, n. 1854). 
Tenuto conto dei principi sopra esposti, deve ulteriormente rilevarsi l’insufficienza di una condizione lavorativa, almeno apparentemente regolare, a superare “ex se” la presunzione di pericolosità sociale dei soggetti, condannati per determinate tipologie di reato, quanto meno in assenza di ulteriori elementi di valutazione, che l’Amministrazione non è chiamata a ricercare, ma che debbono essere sottoposti – in modo documentato e puntuale – alla valutazione delle Autorità competenti: solo sotto quest’ultimo profilo potrebbero rilevare l’avvio della procedura di riabilitazione, ovvero la sopravvenienza di altre circostanze, tali da consentire il superamento – anche in sede di riesame – del giudizio di disvalore insito nelle condanne in questione; quanto sopra, in via applicativa della potestà discrezionale attribuita all’Amministrazione dall’art. 5, comma 5, del medesimo D.Lgs. n. 286/1998, in materia di “nuovi elementi sopraggiunti”, che potrebbero consentire il rilascio del permesso di soggiorno, anche in presenza di cause in astratto ostative. La possibilità, riconosciuta dal legislatore, che l’Amministrazione valuti eventuali fatti sopraggiunti non implica, d’altra parte, deroga al principio, secondo cui la legittimità dei provvedimenti amministrativi deve essere riconosciuta – o negata – in base alla situazione di fatto e di diritto sussistente alla data della relativa emanazione. 
Una presunzione “ex lege” di pericolosità sociale – temperata solo nei termini sopra specificati – non suscita ad avviso del Collegio dubbi di costituzionalità, come confermato dal fatto che la Corte Costituzionale si sia già espressa più volte per l’inammissibilità di diverse eccezioni di incostituzionalità, sollevate in ordine sia all’art. 4, comma 3 nel testo attualmente vigente, sia all’art. 5, comma 5 del più volte citato D.Lgs. n. 286/98, alla luce degli articoli 2, 3, 4, 13, 16, 27, 29 e 35 della Costituzione (Corte Cost. 11.1.2005, ordinanza n. 9; 6.12.2006, ordinanza n. 431 e 4.12.2006, sentenza n. 414). 
Non può essere posta in dubbio, infatti, la discrezionalità del legislatore nel valutare le esigenze di tutela dell’ordine pubblico e della sicurezza dei cittadini, in rapporto a fenomeni di vasta portata che, in un determinato momento storico, possono porre problematiche eccezionali: l’ampiezza del fenomeno immigratorio, la registrata crescita di condotte devianti, con conseguente allarme sociale e l’oggettiva difficoltà di controllo capillare del territorio possono, dunque, porre su una base di ragionevolezza (nei limiti rilevanti sotto il profilo in esame), anche disposizioni molto rigide, che vedano preclusa la permanenza sul territorio nazionale di chi sia stato condannato per determinati reati, nella consapevolezza della impossibilità di compiere accertamenti approfonditi sulla pericolosità sociale dei singoli. 
Le norme di cui si discute, pertanto, appaiono frutto di bilanciamento di interessi, fra una “politica dell’accoglienza” (che privilegi il lato personale ed umano, ovvero l’indubbia possibilità di recupero sociale di chi sia incorso in vicende anche penalmente rilevanti) ed una “politica del rigore”, che punti ad inserire nel tessuto sociale solo i numerosissimi lavoratori stranieri che offrano le migliori garanzie di positivo apporto e migliore inserimento nella collettività, senza che l’una o l’altra di tali scelte trovino ostacolo nella Carta Costituzionale, non essendo imposta – anche nell’ottica della legislazione restrittiva, attualmente vigente – alcuna presunzione assoluta di pericolosità sociale del singolo, ma solo una esigenza di condotta irreprensibile per l’ingresso e la permanenza dello straniero sul territorio nazionale, peraltro non senza possibilità di valutare nuove circostanze sopravvenute, che possano in via eccezionale giustificare anche singole condotte devianti: tali circostanze risulterebbero, tuttavia, invalidanti dell’atto negativo emesso solo ove già emergenti dagli atti sottoposti all’esame dell’Amministrazione, in quanto opportunamente documentate dal soggetto interessato, su cui grava al riguardo l’onere della prova. 
In tale contesto, il diniego in esame non avrebbe potuto avere, nel caso di specie, un contenuto diverso, in base ai dati che risultano, in base agli atti di causa, in possesso dell’Amministrazione alla data della relativa emanazione. 
Per le ragioni esposte, in conclusione, il Collegio ritiene che l’appello debba essere respinto; quanto alle spese giudiziali, tuttavia, il Collegio stesso ne ritiene equa la compensazione.

P.Q.M.

Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale, Sezione Sesta, respinge l’appello; compensa le spese giudiziali.

Ordina che la presente decisione sia eseguita dall'Autorità amministrativa.

Così deciso in Roma, dal Consiglio di Stato, in sede giurisdizionale - Sez. VI - nella Camera di Consiglio in data 16 giugno 2009