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La normativa italiana sulla pena detentiva applicata al reato di clandestinità contrasta con la direttiva europea sul rimpatrio dei clandestini 2008/115/CE

"La direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio 16 dicembre 2008, 2008/115/CE, recante norme e procedure comuni applicabili negli Stati membri al rimpatrio di cittadini di paesi terzi il cui soggiorno è irregolare, in particolare i suoi artt. 15 e 16, deve essere interpretata nel senso che essa osta ad una normativa di uno Stato membro, come quella in discussione nel procedimento principale, che preveda l’irrogazione della pena della reclusione al cittadino di un paese terzo il cui soggiorno sia irregolare per la sola ragione che questi, in violazione di un ordine di lasciare entro un determinato termine il territorio di tale Stato, permane in detto territorio senza giustificato motivo."
Questo il dispositivo della sentenza della Corte di giustizia europea del 28 aprile 2011, avente ad oggetto «Spazio di libertà, di sicurezza e di giustizia – Direttiva 2008/115/CE – Rimpatrio dei cittadini di paesi terzi il cui soggiorno è irregolare – Artt. 15 e 16 – Normativa nazionale che prevede la reclusione per i cittadini di paesi terzi in soggiorno irregolare in caso di inottemperanza all’ordine di lasciare il territorio di uno Stato membro – Compatibilità».
 
Secondo la Corte di Lussemburgo "la direttiva Ue sul rimpatrio dei migranti irregolari osta ad una normativa nazionale che punisce con la reclusione il cittadino di un Paese terzo in soggiorno irregolare che non si sia conformato ad un ordine di lasciare il territorio nazionale", in quanto "una sanzione penale quale quella prevista dalla legislazione italiana può compromettere la realizzazione dell'obiettivo di instaurare una politica efficace di allontanamento e di rimpatrio nel rispetto dei diritti fondamentali". Di conseguenza, il giudice italiano incaricato di applicare il diritto di Bruxelles "dovrà disapplicare ogni disposizione nazionale contraria al risultato della direttiva (segnatamente, la disposizione che prevede la pena della reclusione da uno a quattro anni) e tenere conto del principio dell'applicazione retroattiva della pena più mite, il quale fa parte delle tradizioni costituzionali comuni agli Stati membri". Pur essendo la legislazione penale di competenza degli Stati membri, questi devono comunque rispettare il diritto Ue e non possono quindi applicare una normativa, sia pure di diritto penale, che ne comprometta la realizzazione degli obiettivi. Di conseguenza, hanno concluso i giudici di Lussemburgo, "gli Stati membri non possono introdurre, al fine di ovviare all'insuccesso delle misure coercitive adottate per procedere all'allontanamento coattivo, una pena detentiva". Il carcere, infatti, "rischia di compromettere la realizzazione dell'obiettivo perseguito dalla direttiva" di Bruxelles, ossia "l'instaurazione di una politica efficace di allontanamento e di rimpatrio dei cittadini di paesi terzi il cui soggiorno sia irregolare nel rispetto dei loro diritti fondamentali". La sentenza della Corte europea del 28 aprile  fa riferimento al caso di Hassen El Dridi, entrato illegalmente in Italia, nei cui confronti è stato emanato nel 2004 un decreto di espulsione in base al quale nel 2010 è stato spiccato un ordine di lasciare il territorio nazionale. Non avendo lasciato l'Italia, El Dridi è stato quindi condannato dal Tribunale di Trento ad un anno di reclusione per reato di clandestinità, decisione impugnata dal cittadino extracomunitario.